‘Il fiume senza fine’. Quale
titolo migliore avrebbe potuto avere l’ultimo album dei Pink Floyd? Una cover
che sicuramente non è da meno rispetto a quelle precedenti, dove un nocchiero
ci guida in queste acque senza fine rarefatte, acque che si confondono con le
nuvole e che portano verso l’eternità. Infatti il tema principale dell’album è
senza dubbio questo: l’eternità. Tutto il lavoro è un omaggio a Rick Wright,
uno dei padri dei Pink Floyd, morto nel 2008; e viene pubblicato vent’anni dopo
il loro ultimo lavoro, The division bell, di cui The endless river può sicuramente
essere visto come un’appendice: infatti ‘The endless river’ è un verso di ‘High
hopes’, traccia con cui si chiudeva l’album del 1994. Devo fare una premessa:
non si può ascoltare questo disco pensando di trovarsi di fronte uno dei tanti
capolavori a cui questo grande gruppo ci ha abitati, ma bisogna prenderlo per
quello che è, un biglietto di saluti, un addio. Per questo sarebbe inutile dire
che chi si aspettava di trovarvi qualcosa di incredibile come nei precedenti,
rimarrà deluso. Eppure, nonostante questo, io mi sento comunque di definirlo un
ottimo lavoro. Non troviamo sicuramente i Pink Floyd che amavano sperimentare e
rischiare, ma troviamo dei Pink Floyd conservatori, che confermano il loro
stile. Il disco è essenzialmente strumentale, solo un pezzo, Louder than words
è cantato. Ma come nasce questo disco?
Durante le session di ‘The
division bell’ nel ’94, il gruppo (composto da Wright, Mason e Gilmour) decise
di pubblicare un doppio cd: in uno sarebbero state contenute le canzoni
‘cantate’ e nell’altro le versioni strumentali (come accadde per Ummagumma). Ma
alla fine il progetto saltò e venne pubblicato il disco singolo. Per cui le
oltre venti ore di registrazioni rimasero nell’archivio di Gilmour, fin quando
quest’ultimo non decise di affidare ai coproduttori Andy Jackson,Youth e Phil
Manzanera il compito di estrarne e montarne il meglio, realizzando le basi per
questo ultimo lavoro, fino poi a riprenderne possesso e a riarrangiare e
risuonare le tracce selezionate dai coproduttori, dividendole nelle quattro
sezioni in cui risulta essere diviso il disco. Tra i partecipanti alle session,
tre coriste e le ‘Escala’, un quartetto femminile famoso in Inghilterra per la
loro partecipazione al programma ‘Britain’s got talent’. Ascoltando comunque
l’intero album è impossibile non notare delle somiglianze con i lavori compresi
tra ‘The dark side of the moon’ e ‘The wall’, quasi a voler rievocare
nell'ascoltatore quei capolavori della musica mondiale.
Come dicevo, il disco risulta
essere diviso in quattro sezioni:
La prima sezione è costituita da
tre pezzi: Thinks left unsaid, It’s what we do, Ebb and Flow. Fin dalle prime
note si entra in questa atmosfera musicale rarefatta, metafisica, che fa capire
fin da subito che questo non è un disco da ascoltare come si ascolterebbe una
classica canzone pop né tantomeno un altro disco dei Pink Floyd. E proprio questo
lo distingue da un normale disco ambient; qui per capire il vero senso di ogni
canzone, bisogna immergercisi con tutti noi stessi. In particolare la terza
traccia ricorda vagamente ‘Welcome to the machine’.
La seconda sezione invece ha dei
ritmi decisamente più rock e a tratti psichedelici. Si apre con ‘Sum’, in cui
le chitarre introducono l’ascoltatore verso queste ‘acque’ più rock (tanto per rimanere nel tema
del river), per poi proseguire con ‘Skins’ che, costellata di percussioni, ha
dei ritmi quasi tribali; continua poi con la breve ‘Unsung’, in cui un assolo
di chitarra elettrica è accompagnato da un organo in secondo piano, per
terminare poi con ‘Anisina’, il cui ritmo ricorda molto la ben nota ‘Us and
Them’, di cui ritroviamo anche un assolo di sassofono.
La terza sezione è quella più
massiccia: inizia con la riflessiva ‘The lost art of conversation’, in cui
pianoforte e chitarra si alternano e si accompagnano vicendevolmente; poi
troviamo ‘On noodle street’, i cui entriamo in ritmi quasi dub, e ‘Night light’;
prosegue con ‘Allons-y1’, in cui è impossibile non ripensare alle atmosfere di
The Wall, ‘Autumn 68’,in cui l’immancabile organo Hammond non passa di certo
inosservato, e con ‘Allons-y2’ che prosegue i ritmi di Allons-y1. Termina con
‘Talkin Hawkin’, una delle più riflessive, in cui si affronta la tematica della
comunicazione verbale, in cui nel sottofondo di cori a intermittenza è
possibile ascoltare la voce artificiale di Stephen Hawking. Profonda, oltre che
a mio parere la più pinkfloydiana del disco.
La quarta ed ultima sezione
inizia con ‘Calling’, che ci introduce in una atmosfera ulteriormente
metafisica, quasi spaziale. Personalmente ho pensato a ‘Interstellar’ mentre la
ascoltavo. Prosegue con ‘Eyes to Pearls’, in cui entriamo ulteriormente in
un’atmosfera spaziale, e ‘Surfacing’, che torna a ritmi più ‘terreni’ grazie ad
assolo di chitarra e cori, quasi ad accompagnarci all’ultima traccia, la
bellissima ‘Louder than words’. Questa è l’unica vera e propria ‘canzone
cantata’ del disco, con il testo della signora Gilmour, che fa quasi un
resoconto della storia del gruppo, oltre che rappresentare il momento dei
saluti nonché l’augurio di ‘buon viaggio’ attraverso l’endless river della
musica, quella dei pink floyd che rimarrà eterna grazie alle sue note, ognuna
una piccola particella di quei capolavori che ci accompagneranno per sempre in
quel fiume finito che è la vita.
VOTO: 9.5
-Cos-
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