martedì 3 febbraio 2015

THE ENDLESS RIVER

‘Il fiume senza fine’. Quale titolo migliore avrebbe potuto avere l’ultimo album dei Pink Floyd? Una cover che sicuramente non è da meno rispetto a quelle precedenti, dove un nocchiero ci guida in queste acque senza fine rarefatte, acque che si confondono con le nuvole e che portano verso l’eternità. Infatti il tema principale dell’album è senza dubbio questo: l’eternità. Tutto il lavoro è un omaggio a Rick Wright, uno dei padri dei Pink Floyd, morto nel 2008; e viene pubblicato vent’anni dopo il loro ultimo lavoro, The division bell, di cui The endless river può sicuramente essere visto come un’appendice: infatti ‘The endless river’ è un verso di ‘High hopes’, traccia con cui si chiudeva l’album del 1994. Devo fare una premessa: non si può ascoltare questo disco pensando di trovarsi di fronte uno dei tanti capolavori a cui questo grande gruppo ci ha abitati, ma bisogna prenderlo per quello che è, un biglietto di saluti, un addio. Per questo sarebbe inutile dire che chi si aspettava di trovarvi qualcosa di incredibile come nei precedenti, rimarrà deluso. Eppure, nonostante questo, io mi sento comunque di definirlo un ottimo lavoro. Non troviamo sicuramente i Pink Floyd che amavano sperimentare e rischiare, ma troviamo dei Pink Floyd conservatori, che confermano il loro stile. Il disco è essenzialmente strumentale, solo un pezzo, Louder than words è cantato. Ma come nasce questo disco?
Durante le session di ‘The division bell’ nel ’94, il gruppo (composto da Wright, Mason e Gilmour) decise di pubblicare un doppio cd: in uno sarebbero state contenute le canzoni ‘cantate’ e nell’altro le versioni strumentali (come accadde per Ummagumma). Ma alla fine il progetto saltò e venne pubblicato il disco singolo. Per cui le oltre venti ore di registrazioni rimasero nell’archivio di Gilmour, fin quando quest’ultimo non decise di affidare ai coproduttori Andy Jackson,Youth e Phil Manzanera il compito di estrarne e montarne il meglio, realizzando le basi per questo ultimo lavoro, fino poi a riprenderne possesso e a riarrangiare e risuonare le tracce selezionate dai coproduttori, dividendole nelle quattro sezioni in cui risulta essere diviso il disco. Tra i partecipanti alle session, tre coriste e le ‘Escala’, un quartetto femminile famoso in Inghilterra per la loro partecipazione al programma ‘Britain’s got talent’. Ascoltando comunque l’intero album è impossibile non notare delle somiglianze con i lavori compresi tra ‘The dark side of the moon’ e ‘The wall’, quasi a voler rievocare nell'ascoltatore quei capolavori della musica mondiale.
Come dicevo, il disco risulta essere diviso in quattro sezioni:


La prima sezione è costituita da tre pezzi: Thinks left unsaid, It’s what we do, Ebb and Flow. Fin dalle prime note si entra in questa atmosfera musicale rarefatta, metafisica, che fa capire fin da subito che questo non è un disco da ascoltare come si ascolterebbe una classica canzone pop né tantomeno un altro disco dei Pink Floyd. E proprio questo lo distingue da un normale disco ambient; qui per capire il vero senso di ogni canzone, bisogna immergercisi con tutti noi stessi. In particolare la terza traccia ricorda vagamente ‘Welcome to the machine’.
La seconda sezione invece ha dei ritmi decisamente più rock e a tratti psichedelici. Si apre con ‘Sum’, in cui le chitarre introducono l’ascoltatore verso queste  ‘acque’ più rock (tanto per rimanere nel tema del river), per poi proseguire con ‘Skins’ che, costellata di percussioni, ha dei ritmi quasi tribali; continua poi con la breve ‘Unsung’, in cui un assolo di chitarra elettrica è accompagnato da un organo in secondo piano, per terminare poi con ‘Anisina’, il cui ritmo ricorda molto la ben nota ‘Us and Them’, di cui ritroviamo anche un assolo di sassofono.
La terza sezione è quella più massiccia: inizia con la riflessiva ‘The lost art of conversation’, in cui pianoforte e chitarra si alternano e si accompagnano vicendevolmente; poi troviamo ‘On noodle street’, i cui entriamo in ritmi quasi dub, e ‘Night light’; prosegue con ‘Allons-y1’, in cui è impossibile non ripensare alle atmosfere di The Wall, ‘Autumn 68’,in cui l’immancabile organo Hammond non passa di certo inosservato, e con ‘Allons-y2’ che prosegue i ritmi di Allons-y1. Termina con ‘Talkin Hawkin’, una delle più riflessive, in cui si affronta la tematica della comunicazione verbale, in cui nel sottofondo di cori a intermittenza è possibile ascoltare la voce artificiale di Stephen Hawking. Profonda, oltre che a mio parere la più pinkfloydiana del disco.
La quarta ed ultima sezione inizia con ‘Calling’, che ci introduce in una atmosfera ulteriormente metafisica, quasi spaziale. Personalmente ho pensato a ‘Interstellar’ mentre la ascoltavo. Prosegue con ‘Eyes to Pearls’, in cui entriamo ulteriormente in un’atmosfera spaziale, e ‘Surfacing’, che torna a ritmi più ‘terreni’ grazie ad assolo di chitarra e cori, quasi ad accompagnarci all’ultima traccia, la bellissima ‘Louder than words’. Questa è l’unica vera e propria ‘canzone cantata’ del disco, con il testo della signora Gilmour, che fa quasi un resoconto della storia del gruppo, oltre che rappresentare il momento dei saluti nonché l’augurio di ‘buon viaggio’ attraverso l’endless river della musica, quella dei pink floyd che rimarrà eterna grazie alle sue note, ognuna una piccola particella di quei capolavori che ci accompagneranno per sempre in quel fiume finito che è la vita.

VOTO: 9.5

                                                                                                                                 -Cos-


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